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 La Cava tra Seicento e Novecento

la Cava da Porta Maggiore in una foto degli anni '20«Ci arrampicammo su per la ripida strada tra le case di tufo vulcanico giallo ora nero [...] In fondo ai vicoli bui potemmo vedere le tetre profondità delle cavità, scavate nella roccia viva. Nei bassi gli abitanti di questa città diruta faticavano in silenzio, e fuori dalle porte gufi incappucciati erano appollaiati su pertiche infisse nel terreno duro» Ole Potter. A little pilgrimage in Italy

Sebbene i toni del girone dantesco descritto dalla schifignosa viaggiatrice inglese ci sembrino esagerati, è pur vero che la Cava è stata la zona di Orvieto in cui il Medio Evo è finito più tardi di tutte le altre, dove il selciato ha sostituito i gradoni in terra battuta solo per permettere il passaggio delle automobili. E dove anche le grotte (ora cantine, magazzini, negozi o luoghi da visitare) erano abitate o adibite a malsani laboratori artigiani o ancora a stalle per gli asini dei viaggiatori provenienti da fuori città.

Ma la Cava, luogo di contraddizioni inquietanti, era, fino agli anni '60, anche il rione preferito per rifocillarsi e per stare in compagnia, nelle numerose osterie e nelle bettole improvvisate.
Ed era anche la custode silenziosa di un piccolo capolavoro barocco, la Chiesa della Madonna della Cava, i cui finti marmi e i cui argenti stridevano spesso con la miseria vera di molti Cavajoli.